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Centro Interdipartimentale di Studi su Pascal e il Seicento

La storia

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Giuseppe Pezzino, nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale nell'Università di Catania. Ma soprattutto (cosa a cui tiene di più!) è stato professore di Filosofia e Storia nei Licei Statali. Ha fondato la Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha inoltre fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica". È membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; e dell'associazione "Les Amis de Bossuet".

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Giuseppe Pezzino

VANITAS

2023-06-16 11:35

Prof. Giuseppe Pezzino

VANITAS

Hai ragione da vendere, cara Myriam, nel lamentare la forzata separazione sociale in questi dolorosi e interminabili giorni di emergenza planetaria. Q

Hai ragione da vendere, cara Myriam, nel lamentare la forzata separazione sociale in questi dolorosi e interminabili giorni di emergenza planetaria. Questa pandemia, infatti, è una vera catastrofe anche riguardo alla dimensione esistenziale. In verità, si parla sempre e giustamente dei danni economici o dei problemi socio-politici causati da questo male terribile e sconosciuto, che sta provocando la morte di tantissimi esseri umani; ma spesso si trascura lo spaventoso black-out che ha improvvisamente spento le nostre energie, che ha interrotto il nostro fare, il nostro lavoro, le nostre abitudini, i nostri affetti. Un inaspettato oscuramento è calato su ciascuno di noi, generando trepidazione per i parenti lontani, assalti di angoscia, slavine d’incertezza, paura della morte.
Quando torneremo alla normalità? Presto … e intanto diviene normale l’anormalità.
Hai dunque ragione. Però, non dobbiamo perdere il nostro discernimento e, soprattutto, non dobbiamo confondere l’isolamento con la solitudine. Ti cito un caso emblematico: nel 1756 Jean-Jacques Rousseau lascia il disordine e la confusione di Parigi, per rifugiarsi in campagna, a Montmorency, nella speranza di cogliere quella pace interiore che nella babele parigina non era dato trovare. Il Ginevrino anela alla solitudine come condizione privilegiata di serenità dell’animo e di colloquio intimo con se stesso e con la natura. Purtroppo, mentre assapora le dolcezze della dea Solitudine, Rousseau ha pure la sventura di conoscere il volto laido e demoniaco del dio Isolamento: infatti, col passare del tempo, gli amici che risiedono a Parigi lo criticano, lo escludono dalla loro cerchia affettiva, lo emarginano, lo isolano e gli stendono attorno un cordone di derisione e di disprezzo, che presto si trasformerà in un capestro micidiale.
Ecco, nel caso di Rousseau, la solitudine è intesa e vissuta come una moderna fuga mundi da parte di un’anima sensibile, che non si sente affatto un’isola. Insomma la sua solitudine, che certamente è dialogo con la natura, non è però assenza di socialità, poiché la lontananza dalla societas hominum, la società degli uomini, non esclude anzi rinsalda i legami con la societas entium, la società degli enti.
Intendiamoci, però! Da un altro punto di vista – e qui ti chiedo ancora di distinguere – la solitudine si mostra nel suo aspetto demoniaco, come dimora del nulla e come trionfo della morte. Da questa prospettiva, oggi la mente corre subito a chi, in assoluta solitudine, è morto o sta morendo in un reparto di terapia intensiva. È terribile, ma purtroppo è così: oggi il malato va a combattere in solitudine contro il maledettissimo virus; e in solitudine va a morire. Può essere circondato e sorretto da un’équipe sanitaria di alto livello, ma è e dev’essere in solitudine.
Ma tu presta attenzione a quest’altro particolare: da moltissimo tempo, rispetto al caso emblematico di Rousseau, il rapporto isolamento/solitudine si è capovolto. Se per un attimo escludiamo la particolarissima vicenda della pandemia, e guardiamo a volo d’uccello almeno agli ultimi cinquant’anni, possiamo ben dire che pochi avvertono l’isolamento; mentre moltissimi soffrono la solitudine.
Ad esempio, andiamo in una discoteca, dov’è ben vero che si scoppia di “socialità”, e anche di droga e superalcolici; e tuttavia un buon numero di quelle danzatrici e di quei danzatori, che si dimenano per il dio Bacco più che per la musa Tersìcore, sono la disperata rappresentazione plastica della solitudine. Oppure andiamo in un ufficio, dove regna tanta socialità e tanta cortesia fra colleghi di lavoro; e tuttavia qualcuno di loro avverte la fredda solitudine di chi si sente un estraneo in un festoso teatro della vanità e della maschera. Andiamo infine in una casa di riposo (che io m’intestardisco a chiamare “ospizio per vecchi”), dov’è ben vero che gli anziani trascorrono la giornata nella socialità dei coetanei e degli infermieri; e tuttavia non si può negare che molti di loro, dopo essere stati sbolognati dai figli, lentamente muoiono nel dolore e nella solitudine. In breve, si usa e si abusa del verbo “socializzare”, ma stiamo gelando di solitudine.
Ma cos’è la solitudine? Si direbbe la condizione di chi è solo. Troppo facile e banale. La solitudine è la malattia di un’anima vuota o svuotata. Nel vuoto si annida spesso quel desiderio di morte, quella pulsione razionalmente incomprensibile ma non assurda, che spinge all’autodistruzione non solo il vecchio che si lascia morire nelle braccia della solitudine, ma anche il giovane che, giocando con il nulla e sfidando spavaldamente la morte, si fa lentamente soffocare nelle spire del serpente della solitudine.
A questo punto io vorrei riferirmi alla tua seria riflessione, che ha collegato l’idea di morte all’esplodere di questa pandemia. Sono d’accordo con te: in questi mesi dolorosi, in cui il numero delle vittime cresce vertiginosamente in tutto il pianeta, siamo costretti a fare i conti con la morte. Forse prima non moriva nessuno? Tutt’altro. Ogni giorno eravamo tempestati da notizie luttuose: vittime di incidenti aerei, ferroviari, stradali, vittime sul lavoro, vittime del sabato sera, vittime travolte da auto guidate spesso da gente sotto gli effetti di alcol o droga; per non parlare degli omicidii e dei femminicidii. Alla ricezione di tali notizie, senza dubbio non restavamo indifferenti né banalizzavamo gli eventi luttuosi, ma quasi sempre lo shock non durava molto e non andava in profondità. Generalmente leggevamo o ascoltavamo quei bollettini di guerra con commozione, ma anche con l’intima sicurezza di colui che sta non già fra i pericoli mortali della trincea, bensì nella quiete delle retrovie.
Ora è tutto diverso, mia cara. Ora siamo tutti in trincea! Ora, obtorto collo, torniamo a riflettere sul destino dell’uomo, sulla precarietà della nostra vita, sul nulla che parimenti incombe sia sugli umili progetti dei poveri sia sui superbi disegni dei grandi. Ora ci accorgiamo che non siamo onnipotenti; e che, in qualunque momento, possiamo essere trascinati dal vento irresistibile della morte. E, a tal proposito, nulla risulta più bello e più vero e più appropriato dei versi divini del divino Omero, nel VI libro dell’Iliade:

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