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Centro Interdipartimentale di Studi su Pascal e il Seicento

La storia

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Giuseppe Pezzino, nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale nell'Università di Catania. Ma soprattutto (cosa a cui tiene di più!) è stato professore di Filosofia e Storia nei Licei Statali. Ha fondato la Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha inoltre fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica". È membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; e dell'associazione "Les Amis de Bossuet".

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Giuseppe Pezzino

ELOGIO DI DON ABBONDIO

2023-06-02 12:25

Prof. Giuseppe Pezzino

ELOGIO DI DON ABBONDIO

E sissignore! Don Abbondio non è nato con un cuor di leone. E con ciò? Qual è il problema? Di grazia, si facciano avanti tutti quei "cuor di leone" ch


E sissignore! Don Abbondio non è nato con un cuor di leone. E con ciò? Qual è il problema? Di grazia, si facciano avanti tutti quei "cuor di leone" che, a un dato momento, non hanno abbassato gli occhi, o chinato la testa o piegato la schiena, di fronte agli ordini ingiusti di qualche superiore o ai soprusi di qualche potente o alle minacce di qualche prepotente. Si facciano avanti tutti quelli che, da circa due secoli a questa parte, hanno sbrigativamente condannato e volgarmente deriso don Abbondio, nella meschina e ingenerosa speranza di nascondere a sé e agli altri le proprie vigliaccherie, le proprie ansie e le proprie paure.È vero, don Abbondio è un coniglio; e da fifone, la sera del 7 novembre 1628, si avvia a una vergognosa capitolazione di fronte a due bravacci armati fino ai denti: «Signor curato, lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella! Or bene, - gli dice il bravo con finto rispetto, ma in tono inequivocabile di comando - questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai». E lui trema, balbetta, borbotta, annaspa, tenta una difesa disperata, e alla fine si arrende incondizionatamente, quando sente il nome del potentissimo mandante: «Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente».È un ridicolo coniglio il nostro don Abbondio? Sarà pur vero, ma la stessa cosa fa, ai tempi nostri, il povero bottegaio tremebondo a cui si presentano due delinquenti per imporgli il pizzo. Lo stesso fa l’imprenditore di fronte alle minacce di colpire i suoi familiari, se non si assoggetta agli ordini della criminalità. Lo stesso fa chi si vede all’improvviso in faccia una pistola pronta a sparare, se non consegna l’incasso della giornata. E con lo stesso cuor di coniglio piange e implora pietà una donna di fronte a un bruto che, tra botte e minacce, la sta violentando. E piange e grida di dolore e implora pietà un’altra donna in casa sua, mentre una banda di malfattori sta per mozzarle un orecchio. E, avvolto nello stesso sudario di terrore, vive i suoi ultimi giorni Aldo Moro, chiedendo invano clemenza ai suoi carnefici e aiuto ai suoi amici.Si salvano forse dalla paura i potenti? Quei potenti che, spietati con i deboli, fanno tremare il mondo, e che tremano implorando pietà di fronte ad uno più forte di loro? E non ha forse paura l’eterna «vil razza dannata» dei cortigiani? Tutti tremano e trepidano. Quanta paura nei cortigiani di ogni tempo! Quanto timore e quanta insicurezza non solo in quelli che vegetavano da parassiti nella Madrid degli Asburgo o nella Versailles di Luigi XIV, ma anche in quelli che oggi si annidano nei palazzi e palazzacci del potere. Vivono costoro nel terrore di essere scavalcati, di cadere in disgrazia, di essere traditi, di perdere il potere e il credito che hanno raggiunto a ogni costo. E perciò simulano e dissimulano, tramano congiure e ordiscono intrighi.Don Abbondio, invece, ha una sola preoccupazione, una sola ambizione, una sola passione: poter vivere e morire in pace. Al vantaggio di una carriera ecclesiastica in ascesa, che gli avrebbe tolto il sonno e che avrebbe messo a repentaglio la sua tranquillità, egli ha sempre preferito la quiete e l’ombra. E questo povero curato di campagna, che non conosce Carneade, inconsapevolmente però si rivela un minuscolo discepolo di quell’Epicuro che aveva teorizzato il principio del λάθε βιώσας, del «vivi nascosto».Ha ragione Manzoni: in un mondo di lupi rapaci che sbranano le pecore, la peggiore condizione, ieri come oggi, è quella di un animale senza artigli e senza zanne, come ad esempio un povero coniglio che ha molte probabilità di essere divorato. E il nostro buon curato, «non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro». Perciò il nostro «vaso di terra cotta» s’era fatto prete, sia nella speranza di essere protetto da una grande potenza come la Chiesa contro i prepotenti e i potenti della nobiltà, sia nel modesto proposito di coltivare la propria quiete, evitando ostacoli e contrasti.Insomma, pavidamente rispettoso di tutti, don Abbondio sta alla larga da tutti: evita persino di mettersi sotto protezione di qualche nobile come don Rodrigo, che non solo spadroneggia nel territorio, ma addirittura può contare su una famiglia potentissima che vanta grossi calibri a Milano. Egli infatti non cerca don Rodrigo; lo conosce solo di vista e di fama, e le poche volte che l’ha incontrato per strada, si è trattato solo di «toccare il petto col mento, e la terra con la punta del suo cappello» per riverirlo, di farsi piccolo piccolo e di scappare il più lontano possibile. «Stando alla larga da’ prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un’intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza d’inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl’incontrava per la strada, il pover’uomo era riuscito a passare i sessant’anni, senza gran burrasche».Povero diavolo di un coniglio! Si era illuso per troppo tempo di stare al sicuro nella sua tana, quando quella maledetta sera del 7 novembre 1628 il falco grifagno gli mette sul cammino due bravacci, e poi lo artiglia e lo rapisce, lasciandolo infine cadere nei precipizi della paura e dello scoramento. In un attimo, la sua bonaria e vigliacca visione del mondo («a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne’ suoi panni, non accadon mai brutti incontri») si dissolve. Tutto il suo sistema di vita va in frantumi! Il quieto vivere, per cui ha speso un’esistenza, ora si rivela un’amara illusione, un sogno impossibile da realizzare di fronte alle minacce di un prepotente signorotto noto per non minacciare invano. Povero vecchio don Abbondio! Circa mezzo secolo di bocconi amari, di esercizi di pazienza, di piccole astuzie, di baci alle mani di chi se le meritava tagliate, per costruirsi un rifugio di pace, e poi alla fine tutto viene travolto e distrutto da quel demonio di don Rodrigo! Costui, per giunta, gli addossa il pericoloso compito di affrontare la reazione del giovane Renzo che, in un attimo, si vedrà trasformare la festa in un mortorio. Insomma, quello stramaledetto don Rodrigo si limita a minacciare don Abbondio, a muovere una sola pedina - la più debole, la più vulnerabile - per portare vittoriosamente a termine il suo gioco sulla scacchiera della vita degli innocenti.Che fare? dalla pubblicazione del romanzo manzoniano ad oggi, non si contano i consigli, i suggerimenti, gli ammonimenti, che son piovuti addosso al buon vecchio curato in preda al panico. Ma il consiglio più giudizioso fu il primo, quello che gli venne da quella furbacchiona di Perpetua: «Ma! io l’avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi... - Ma poi, sentiamo. - Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant’uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come qualmente...».Ma subito la interrompe il terrorizzato don Abbondio: «Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un pover’uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! l’arcivescovo me la leverebbe?».Così vediamo che all’idea assennata, ma astratta, di Perpetua si contrappone immediatamente l’obiezione poco eroica, ma ragionevole e concreta, del vecchio curato. Infatti a quei tempi (non certo ai nostri, nella nostra pacifica era del kalashnikov!) non era sicuro che la lettera arrivasse al cardinal Federigo Borromeo e che il santo cardinale rispondesse; ma assolutamente sicura era frattanto una schioppettata nella schiena di don Abbondio! E poi che si fa? A questo punto, non risulta che la scaltra Perpetua abbia rincuorato il suo vecchio curato con un secondo consiglio di questo tenore: niente paura, in caso di schioppettata nella schiena, voi prendete il numero di targa dei malviventi! Non risulta, non solo perché in quel secolo non esistevano ancora le automobili, ma soprattutto perché invece esistevano (eccome!) tutte le condizioni di fatto per garantire la schioppettata alla vittima, che aveva osato ribellarsi, e l’impunità ai mandanti e agli esecutori del delitto. E sì! anche nel secolo XVII esistevano quelle esecrabili condizioni di fatto che, ai giorni nostri, garantiscono un largo margine di certezza per la "punizione" della vittima e per l’impunità dei tracotanti e beffardi malfattori. E tuttavia il coro dei "cuor di leone" non accenna sinora a spegnersi: tutti a dare lezioni di dignità e di eroismo a don Abbondio, tutti a condannare la grettezza spirituale del poveraccio, tutti a disprezzarne e deriderne la meschina e vigliacca esistenza.È vero: don Rodrigo ha palesemente torto e Renzo ha ragione in modo altrettanto palese. Ma qui «non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza», dice il terrorizzato don Abbondio al giovane Renzo. Ed ha pure ragione, se si considerano le condizioni di fatto in cui egli vive. Insomma, il nostro buon curato non ha fatto studi approfonditi di filosofia morale o di filosofia del diritto, e non è andato a lezione da Machiavelli, ma ha frequentato le aule della vita ed ha appreso per benino le lezioni dell’esperienza. E l’esperienza gli ha insegnato che, accanto o di contro alla forza del diritto e a quella della morale, esiste la forza di Brenno: una forza cruda e selvaggia che sguaina la spada, la depone su un piatto della bilancia, e grida Guai ai vinti! E per esperienza don Abbondio sa che questa forza si chiama violenza.Ora, su queste condizioni di fatto, si può certamente giustificare l’ignoranza dell’accorta Perpetua, la quale non aveva letto I Promessi sposi, poverina; ma non possiamo giustificare i soliti "cuor di leone", a cui basterebbe dare un’occhiata al romanzo manzoniano per cogliere la velenosa mistura di legalità e illegalità, di politica e di malaffare, che ammorbava una società inesorabilmente incline a scaricare i conflitti o i capricci dei potenti sui deboli e sugli innocenti. Vogliamo parlare del potere politico e militare della Spagna sul territorio milanese? In tempo di pace, in quelle contrade, i soldati spagnoli «insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia».E la legge? C’era di sicuro la legge della giungla, se stiamo a dare un’occhiata alla valanga di gride minacciose e impotenti che, quasi ogni anno, venivano promulgate contro i bravi, i delinquenti e i vagabondi. «L’impunità - scrive meravigliosamente Manzoni - era organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano smovere. Tali eran gli asili, tali i privilegi d’alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o impugnati con vane proteste, ma sostenuti in fatto e difesi da quelle classi, con attività d’interesse, e con gelosia di puntiglio. Ora, quest’impunità minacciata e insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva naturalmente, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così accadeva in effetto; e, all’apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a far ciò che le gride venivano a proibire».A tal proposito, il nostro don Lisander ci elenca impietosamente, all’inizio del romanzo, ben otto gride pubblicate dall’autorità spagnola in quarantaquattro anni (dal 1583 al 1627) per estirpare la malapianta della delinquenza: una vergognosa inflazione legislativa che testimonia l’inefficacia della legge dei forti contro i forti. E l’amministrazione della giustizia? In sintesi si può dire che il forte si faceva giustizia da sé, mentre il debole si poteva rivolgere all’avvocato Azzeccagarbugli, con i noti risultati sconfortanti che ebbero Renzo e i suoi capponi.Dunque, non aveva poi tutti i torti quel vaso di terra cotta di don Abbondio a chiudersi nel suo sarcofago di egoismo e di paura. Ma confrontiamo piuttosto la "bassa" politica conigliesca del nostro buon curato con quei due modelli di "alta" politica che Manzoni ci offre nella sua sublime trasfigurazione artistica: il conte zio e il padre provinciale dei cappuccini, «due potestà, due canizie, due esperienze consumate». Il primo, zio di due bei nipotini come il conte Attilio e don Rodrigo, è un «politicone» (così lo definisce lo scapestrato conte Attilio) di stanza a Milano, in qualità di membro togato di quel Consiglio segreto che forniva pareri al Governatore spagnolo. Un uomo di potere, insomma, a cui si rivolge il conte Attilio per togliere di mezzo un fra Cristoforo che osa contrastare i disonesti disegni di don Rodrigo. Il conte zio, pur conoscendo la tempra morale dei suoi giovani nipoti scapestrati, accetta di "risolvere" il problema di don Rodrigo, parlando con il padre provinciale dei cappuccini.Ma vediamo dappresso questo personaggio, che è un vero capolavoro del genio manzoniano e che offre le mille sfaccettature della politica: il conte zio è innanzi tutto l’esempio tipico della politica come esercizio di un immenso potere, che si racchiude nelle carni flaccide di uomini senza scrupoli e senza ideali, di esseri meschini e vuoti che adorano il potere con l’anima dei cortigiani, che strisciano ai piedi del più potente, e che vanno in estasi se il più alto in grado li degna di uno sguardo, di una parola, di una confidenza, fosse pure un commento sul bel tempo. Il suo prestigio, ad esempio, si era ingigantito in occasione di «un viaggio a Madrid, con una missione alla corte; dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo raccontar da lui». Addirittura il conte duca spagnolo «l’aveva trattato con una degnazione particolare, e ammesso alla sua confidenza, a segno d’avergli una volta domandato, in presenza, si può dire, di mezza la corte come gli piacesse Madrid, e d’avergli un’altra volta detto a quattr’occhi, nel vano d’una finestra, che il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse negli stati del re». Ci siamo intesi? Santi numi, il conte duca spagnolo aveva degnato il conte zio di una preziosa e riservatissima confidenza a quattr’occhi: il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse negli stati del re. Roba da segreto di Stato!Egli, inoltre, è una sorta di prototipo della politica politicante, quella che i francesi definiscono elegantemente politiquepoliticienne, per indicare qualcosa di non sempre elegante e non sempre pulito come la politica dei politici professionisti. Il conte zio, infatti, è un maestro nel macchinare, nell’adulare, nel gestire potere, al fine di accrescere il suo prestigio di patronus e così distribuire benefici ai suoi clientes e ai suoi famuli. Per avere successo nella politica politicante, tu devi possedere in alto grado doti naturali straordinarie di anguilla e di camaleonte, devi dire e non dire, devi avanzare stando immobile, devi evitare di comprometterti, devi saper uccidere con una carezza, devi accumulare profitti col viso dell’altruismo. Inoltre, la tua condotta - accorta e al contempo astuta - dev’essere sorretta da una certa dose di opportunismo e da una notevole destrezza nel districare situazioni difficili. E queste doti politiche il nostro conte zio le possiede per natura e le affina per esercizio: «Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia».Una maschera, insomma, per nascondere una nullità di ideali morali e politici. Sicché questo eccellente politicante assomiglia a «quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c’è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega».Il conte zio, infine, ha le qualità del politico in senso diplomatico. Egli, infatti, ha tatto, finezza, una buona dose di ipocrisia tra il farisaico e il gesuitico, e notevole abilità nel trattare affari gravi e delicati. E questa sua "politica diplomatica" lo porta a scansare gli scontri frontali, a smussare gli spigoli, a usare prudenza nelle relazioni tra persona e persona, a giocare di pazienza e di astuzia dove altri darebbe fuoco alla polveriera.Armato di tutte queste doti politiche, il conte zio si accinge a confrontarsi con il padre provinciale dei cappuccini, il quale rappresenta l’autorità "politica" di un Ordine religioso, e perciò della stessa Chiesa. Si tratta, come si sa, di far fuori fra Cristoforo che costituisce l’unico intralcio agli ignobili progetti di don Rodrigo. E qui il conte zio dà il meglio di se stesso, offrendo un saggio di politica diplomatica e nel contempo mafiosa: «Stante l’amicizia che passa tra di noi, ho creduto di far parola a vostra paternità d’un affare di comune interesse, da concluder tra di noi, senz’andar per altre strade, che potrebbero ... E perciò, alla buona, col cuore in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che anderemo d’accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c’è un padre Cristoforo da ***?».Il padre provinciale accenna con discrezione una difesa dell’ottimo fra Cristoforo, ma in cuor suo si fa prendere la mano dalla politica del coniglio: «Colpa mia; - pensa il vecchio cappuccino - lo sapevo che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito, e non lasciarlo fermare sei mesi in un luogo, specialmente in conventi di campagna». Insomma, don Abbondio non resta affatto da solo nella prassi politica del coniglio! E come l’impaurito curato aveva addossato tutte le colpe dei suoi guai non già a don Rodrigo, ma ai due innocenti Renzo e Lucia; così ora il padre provinciale, alquanto codardo e servile con i potenti, non trova di meglio che scaricare sull’innocente fra Cristoforo tutta la responsabilità degli impicci che gli stanno capitando fra capo e collo.Nessuna colpa e tanta comprensione, invece, per un delinquente parassita come don Rodrigo: «Mio nipote è giovine, vivo, si sente quello che è, non è avvezzo a esser provocato...». Meglio dunque non provocarlo, il buon giovine mafioso che chiede la testa di fra Cristoforo! Ma la minaccia si trasforma subito in una bonaria e altrettanto mafiosa proposta di accomodamento, per bocca del malvissuto conte zio: «Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo... si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest’urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire». Troncare all’inizio le avvisaglie di un conflitto, sopire le discordie, calmare le acque, per accomodare da buoni amici una faccenda a favore del carnefice e a danno della vittima innocente! E perciò quel ribelle di fra Cristoforo, che pretende di rispettare la legge di Dio e non quella dei signori, viene immediatamente trasferito (non punito!) da Pescarenico a Rimini.E fu così che, con quattro magiche paroline ben dette fra «due potestà, due canizie, due esperienze consumate», si avverò il miracolo di fare andare il vecchio fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini. Sempre meglio di una schioppettata nella schiena, avrebbe detto il saggio don Abbondio!Ma ora lasciamo, anche con una certa nausea, il territorio della politica per addentraci in quello della morale. Qui don Abbondio trova due nobili modelli in fra Cristoforo e nel cardinal Federigo Borromeo. Sono i due modelli che il severo e appassionato giansenista Manzoni disegna come vivida personificazione di un ideale cristiano per nulla astratto ma concreto, non statico ma dinamico, non estatico ma operoso. Il primo, fra Cristoforo, è un grandioso inno a Dio che, come Provvidenza, è vicino agli uomini, opera su di loro, dentro di loro e fra loro, ora con mano paterna a guidare, sorreggere e consolare, ora con mano possente a fare giustizia e a chiedere conto dei misfatti commessi dai malvagi. Cos’è la Provvidenza, se non la Volontà di Dio, quando riconosciamo che l’individualità non è il Tutto ma è nel Tutto? Allora chiniamo il capo, riconosciamo la finitudine della nostra persona, dei nostri disegni e delle nostre opere, e umilmente diciamo: se Dio vuole; grazie a Dio; a Dio piacendo. Cos’è la Provvidenza, se non la presenza di Dio nelle umane cose? E quando comprendiamo che la nostra opera - per grande o misera che sia - è e non è opera nostra, perché trae valore e senso da una Ragione divina che ne sa più di noi, proprio allora pronunciamo le sublimi parole che ci hanno insegnato fin dai primi anni di vita e che, nel raccoglimento dello spirito, sgorgano spontanee dal nostro petto: Fiat voluntas tua, Sia fatta la tua volontà! Cos’è la Provvidenza, se non il miracolo della conversione di un’anima? Proprio in quella meravigliosa metànoia, in quel mutamento radicale e profondo, in quella miracolosa conversio ad Deum che avviene mediante la Grazia, noi avvertiamo umilmente e felicemente la presenza di Dio. E quando, vacillanti e smarriti, invochiamo la Grazia affinché a noi, insicuri delle nostre forze, essa conceda la sua forza spirituale; e quando, abbandonando la nostra fatua superbia di atomi figli di nessuno, sentiamo profondamente la nostra identità con il Tutto, proprio allora noi glorifichiamo la Provvidenza divina!Da questo punto di vista, non v’ha dubbio che fra Cristoforo è l’inno più bello alla Provvidenza, sia nella sua miracolosa conversione, sia nella sua umile esistenza dedicata al prossimo sino al sacrificio della vita, sia in quella terribile e profetica minaccia (Verrà un giorno...) scagliata sulla superbia diabolica di don Rodrigo. E il rigorismo morale del giansenista Manzoni sa creare un capolavoro nel capolavoro, quando ci mette dinanzi al testamento spirituale di fra Cristoforo: «Qui dentro - dice il frate a Renzo e Lucia nel Lazzaretto - c’è il resto di quel pane... il primo che ho chiesto per carità; quel pane di cui avete sentito parlare! Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’ superbi e a’ provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto!».Da sottolineare che don Abbondio non incontra mai fra Cristoforo: troppa distanza morale! Addirittura un abisso fra la religione del quieto vivere del curato e la religione cristiana del frate. Invece don Abbondio incontra (per nulla volentieri!) il suo vescovo: il cardinal Federigo Borromeo. Povero curato! Chi avrebbe mai osato pensare che, al tramonto della sua vita di coniglio, egli avrebbe fatto degli incontri per nulla voluti e per nulla graditi? Infatti, sul modesto e monotono viottolo della sua vita gli si parano innanzi ora i bravi, ora il cardinale, ora l’Innominato. Una vera disdetta!La figura angelica del cardinal Federigo, che effonde le sublimi melodie della morale cristiana, sovrasta quella del nostro buon curato, la illumina e la eleva, per quanto possibile. Il suo paterno rimprovero è grave e fermo, ma non restìo al perdono: «È il vostro vescovo che, per suo dovere e per vostra giustificazione, vuol saper da voi il perché non abbiate fatto ciò che, nella via regolare, era obbligo vostro di fare». E qui il vecchio curato si fa piccino piccino e, balbettando, abborraccia un’autodifesa che peggiora le cose: «Io ho sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grave incomodo, ma quando si tratta della vita...». Ecco, con tutto il rispetto per il cardinale, ritorna prepotente in don Abbondio la paura della schioppettata nella schiena!«E quando vi siete presentato alla Chiesa, - disse, con accento ancor più grave, Federigo, - per addossarvi codesto ministero, v’ha essa fatto sicurtà della vita? V’ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v’ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v’ha espressamente detto il contrario? Non v’ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi che c’eran de’ violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che a voi sarebbe comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l’esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitarne l’ufizio, mise forse per condizione d’aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla terra, a spese della carità e del dovere, c’era bisogno dell’unzione santa, dell’imposizion delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa dottrina».È indubbiamente vero! Il divino Maestro disse ai suoi discepoli: «Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi». Sta qui l’abissale differenza fra una religione vuota, ridotta a mere formule, a stanche cerimonie liturgiche, a gesti insignificanti, e la religione cristiana fondata sul Vangelo e sull’Amore. Ma don Abbondio è ben lontano da quest’ultima religione, al punto tale da sentirsi incompreso dal cardinale e da non comprendere appieno la lezione di morale cristiana che Federigo gli sta impartendo: «Anche questi santi son curiosi, in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani, che la vita d’un povero sacerdote». E alla fine, sfinito ma non vinto, il vecchio curato crede di cavarsela con una pietosa ammissione: «Torno a dire, monsignore, che avrò torto io... Il coraggio, uno non se lo può dare».Eh già! Il coraggio, uno non se lo può dare. È proprio vero, ha ragione don Abbondio. Ma questa è una grande verità, se pensiamo di attingere il coraggio soltanto dal pozzo della nostra piccina ed egoistica individualità. Per contro, il coraggio cristiano si attinge da quelle divine parole del Vangelo, che il vecchio curato ha tante volte proclamato in maniera meccanica e distratta: «Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna».Il cardinal Federigo comprende che il vecchio parroco, per paura della morte, per salvare la propria vita terrena, ha ingannato i due innocenti giovani, disattendendo (anzi capovolgendo) i princìpi del Vangelo: «Se è vero, che abbiate detto a que’ poverini ciò che non era, per tenerli nell’ignoranza, nell’oscurità, in cui l’iniquità li voleva... Dunque lo devo credere; dunque non mi resta che d’arrossirne con voi, e di sperare che voi ne piangerete con me. Vedete a che v’ha condotto (Dio buono! e pur ora voi la adducevate per iscusa) quella premura per la vita che deve finire. V’ha condotto... ribattete liberamente queste parole, se vi paiono ingiuste, prendetele in umiliazione salutare, se non lo sono... v’ha condotto a ingannare i deboli, a mentire ai vostri figliuoli».Parole sante e nobili, queste di Federigo. Ma don Abbondio, ancora sordo allo spirito cristiano di quest’ennesimo rimprovero, va ruminando fra sé e sé i soliti piagnistei sulla sua malasorte e sulle ingiustizie subìte: «Ecco come vanno le cose: a quel satanasso, - e pensava all’innominato, - le braccia al collo; e con me, per una mezza bugia, detta a solo fine di salvar la pelle, tanto chiasso. Ma sono superiori; hanno sempre ragione. È il mio pianeta, che tutti m’abbiano a dare addosso; anche i santi».Belle le parole di un santo come il cardinal Federigo, ma in parrocchia tornerà don Abbondio da solo; da solo a ritrovare la mùtria di un don Rodrigo vivo e vegeto! Per giunta, il cardinale è un profeta disarmato, che non usa né schioppo, né spada né bravi. E poi, ad alta voce, il curato dimostra di non aver capito, o voluto capire, nulla: «Ho mancato; capisco che ho mancato; ma cosa dovevo fare, in un frangente di quella sorte?».Cosa poteva fare don Abbondio sotto minaccia di morte? All’insistere del curato sulla paura di perdere la vita terrena, si contrappone puntualmente la morale evangelica di Federigo: «E ancor lo domandate? E non ve l’ho detto? E dovevo dirvelo? Amare, figliuolo; amare e pregare. Allora avreste sentito che l’iniquità può aver bensì delle minacce da fare, de’ colpi da dare, ma non de’ comandi; avreste unito, secondo la legge di Dio, ciò che l’uomo voleva separare; avreste prestato a quegl’innocenti infelici il ministero che avevan ragione di richieder da voi: delle conseguenze sarebbe restato mallevadore Iddio». E poi, dalle vette della morale cristiana Federigo scende opportunamente a considerazioni pratiche: «Non vi venne in mente che alla fine avevate un superiore? Il quale, come mai avrebbe quest’autorità di riprendervi d’aver mancato al vostro ufizio, se non avesse anche l’obbligo d’aiutarvi ad adempirlo? Perché non avete pensato a informare il vostro vescovo dell’impedimento che un’infame violenza metteva all’esercizio del vostro ministero?». «Come non avete pensato, - prosegue il cardinale - che, se a quegli innocenti insidiati non fosse stato aperto altro rifugio, c’ero io, per accoglierli, per metterli in salvo, quando voi me gli aveste indirizzati, indirizzati dei derelitti a un vescovo, come cosa sua, come parte preziosa, non dico del suo carico, ma delle sue ricchezze? E in quanto a voi, io, sarei divenuto inquieto per voi; io, avrei dovuto non dormire, fin che non fossi sicuro che non vi sarebbe torto un capello. Ch’io non avessi come, dove, mettere in sicuro la vostra vita? Ma quell’uomo che fu tanto ardito, credete voi che non gli si sarebbe scemato punto l’ardire, quando avesse saputo che le sue trame eran note fuor di qui, note a me, ch’io vegliavo, ed ero risoluto d’usare in vostra difesa tutti i mezzi che fossero in mia mano?». E poi conclude: «Ma voi non avete visto, non avete voluto veder altro che il vostro pericolo temporale; qual maraviglia che vi sia parso tale, da trascurar per esso ogni altra cosa?».Queste parole - dette non più da un superiore a un subalterno, ma da un padre buono e premuroso che veglia su tutti i suoi figli, e quindi anche su don Abbondio - non convincono ma scuotono il curato, al punto tale che perde il controllo e prorompe in uno sfogo inaspettato e liberatorio: «Gli è perché le ho viste io quelle facce, le ho sentite io quelle parole. Vossignoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe esser ne’ panni d’un povero prete, e essersi trovato al punto».Meraviglia? Nessuna meraviglia, giacché conosciamo bene il nostro buon curato e la sua filosofia. Ma, di grazia, evitiamogli la condanna e la lapidazione. Perciò sono pregati di deporre le pietre tutti quegli ipocriti che menano scandalo e si stracciano le vesti di fronte alla vigliaccheria di don Abbondio, laddove tanti di noi hanno ripetuto le stesse parole (vossignoria parla bene, ma le ho viste io quelle facce!) dinanzi a quelli che c’impartiscono facili lezioni di moralità e di educazione civica, stando in alto, al sicuro, con la scorta armata o con il palladio del potere. Abbiamo bensì il dovere morale e civile di denunciare le persecuzioni di uno stalker, gli attentati di un mafioso, i reati di un truffatore, gli assalti in casa di feroci bande armate. E poi? E poi, dopo la denuncia, molto spesso restiamo soli a rivedere quelle facce ancor più minacciose e ancor più spavalde. Soli, tremendamente soli, pericolosamente soli, con una legislazione e una giustizia che sembrano in buona sostanza favorire il malfattore a detrimento della vittima.Ma poi, diciamola tutta la verità su don Abbondio. Questo povero diavolo, sempre in preda alla paura, è bensì un vigliacco, ma non è un malvagio. Pur chiuso nel proprio bozzolo, riesce, in certi casi, a cogliere tra le nebbie della paura un sentimento di pena per sé e per gli altri. Rimorso per aver peccato in parole, opere ed omissioni nella vicenda del matrimonio di Renzo e Lucia? No, rimorso è una parola sconosciuta da chi, impaurito, tende sempre a giustificarsi addossando sugli altri la responsabilità di ogni ingiustizia. Però, quando la predica del cardinal Federigo riesce pian piano a creare una fessura in quel bozzolo di timoroso egoismo, il vecchio curato cade in un silenzio che testimonia «un certo dispiacere di sé, una compassione per gli altri, un misto di tenerezza e di confusione».In altri termini, don Abbondio non rimane del tutto sordo e insensibile al paterno rimprovero del cardinale: «Il male degli altri, dalla considerazion del quale l’aveva sempre distratto la paura del proprio, gli faceva ora un’impressione nuova. E se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva produrre (ché quella stessa paura era sempre lì a far l’ufizio di difensore), ne sentiva però; sentiva un certo dispiacere di sé, una compassione per gli altri, un misto di tenerezza e di confusione. Era, se ci si lascia passare questo paragone, come lo stoppino umido e ammaccato d’una candela, che presentato alla fiamma d’una gran torcia, da principio fuma, schizza, scoppietta, non ne vuol saper nulla; ma alla fine s’accende e, bene o male, brucia. Si sarebbe apertamente accusato, avrebbe pianto, se non fosse stato il pensiero di don Rodrigo; ma tuttavia si mostrava abbastanza commosso, perché il cardinale dovesse accorgersi che le sue parole non erano state senza effetto».D’altronde, come si fa a restare totalmente impassibili di fronte al cardinal Federigo Borromeo, di fronte, cioè, al fuoco vivificatore e purificatore della fede cristiana e della morale evangelica? Non si resta insensibili alle cristiane parole di un vecchio a un altro vecchio: «Tutt’e due abbiamo già vissuto molto: lo sa il cielo se m’è stato duro di dover contristar con rimproveri codesta vostra canizie, e quanto sarei stato più contento di consolarci insieme delle nostre cure comuni, de’ nostri guai, parlando della beata speranza, alla quale siamo arrivati così vicino. Piaccia a Dio che le parole le quali ho pur dovuto usar con voi, servano a voi e a me. Non fate che m’abbia a chieder conto, in quel giorno, d’avervi mantenuto in un ufizio, al quale avete così infelicemente mancato. Ricompriamo il tempo: la mezzanotte è vicina; lo Sposo non può tardare; teniamo accese le nostre lampade. Presentiamo a Dio i nostri cuori miseri, vòti, perché Gli piaccia riempirli di quella carità, che ripara al passato, che assicura l’avvenire, che teme e confida, piange e si rallegra, con sapienza; che diventa in ogni caso la virtù di cui abbiamo bisogno».Siamo sempre in tempo a riscattarci, dunque. Anche quando si avvicina la morte e sta per scoccare l’ora fatale dell’incontro con lo Sposo, anche allora la fede cristiana ci fortifica al pensiero che la carità concessaci da Dio è quella virtù «che ripara al passato, che assicura l’avvenire, che teme e confida, piange e si rallegra, con sapienza». Purtroppo il terrore è come un sarcofago che rinserra non già un morto, ma un uomo vivo che muore di paura! E il pensiero di don Rodrigo è paralizzante.Ma quando irrompe la peste, e con la peste muore don Rodrigo, allora scopriamo in don Abbondio un uomo nuovo, anzi un uomo libero. Infatti, liberatosi dalla paura, il buon curato trova in fondo al sarcofago scoperchiato una parte di sé mai conosciuta. Pare così di assistere alla "resurrezione" di don Abbondio: infatti, grazie alla peste che ha spazzato via quel maledetto signorotto, sorge un don Abbondio nuovo, che scoppia di gioia, che scopre il piacere della relazione con gli altri, che ha voglia di scherzare, e persino di fare lo spiritoso galante con le donne: «Ha proprio fatto uno sproposito Perpetua a morire ora; ché questo era il momento che trovava l’avventore anche lei. E a Milano, signora, mi figuro che sarà lo stesso. - Eccome! si figuri che, solamente nella mia cura, domenica passata, cinquanta denunzie. - Se lo dico; il mondo non vuol finire. E lei, signora, non hanno principiato a ronzarle intorno de’ mosconi?».Abbiamo inteso bene? Proprio così: dopo la peste, il vecchio curato trova una certa bonarietà, ostenta una certa disinvoltura con gli altri, sfoggia un’insolita parlantina che lo spinge sino al punto di prendersi delle confidenze con le signore. «Sicuro che ho voglia di scherzare - esclama il buon curato, rivolgendosi ad Agnese - e mi pare che sia ora finalmente. Ne abbiam passate delle brutte, n’è vero, i miei giovani? delle brutte n’abbiam passate: questi quattro giorni che dobbiamo stare in questo mondo, si può sperare che vogliano essere un po’ meglio».I miracoli della peste! «Ah! - diceva poi tra sé don Abbondio, tornato a casa: - se la peste facesse sempre e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe proprio peccato il dirne male: quasi quasi ce ne vorrebbe una, ogni generazione; e si potrebbe stare a patti d’averla; ma guarire, ve’». Anzi, i miracoli della Provvidenza! Vogliamo pensarci un attimo? In poco tempo, la Provvidenza usa la miracolosa scopa della peste, per dare una bella ed energica ripulita alla società infestata da locuste e da lupi come un conte zio o un don Rodrigo. Indubbiamente, su questo profondo argomento della presenza divina nelle cose umane, il nostro buon curato non aveva letto né Boezio, né Vico, né lo stesso Manzoni. E perciò gli perdoniamo il suo personalissimo concetto di Provvidenza. Ma - a dirla tutta - quando un grande male, pur travolgendo indistintamente buoni e cattivi, spazza via quel potente e malvagio don Rodrigo, allora, vivaddio, qualunque vaso di terra cotta di qualunque secolo ha delle buone ragioni per benedire la provvidenziale scopa della peste!«Ah! è morto dunque! è proprio andato! - esclama don Abbondio. - Vedete, figliuoli, se la Provvidenza arriva alla fine certa gente. Sapete che l’è una gran cosa! un gran respiro per questo povero paese! che non ci si poteva vivere con colui». Ripetiamo: l’esclamazione di gioia e di liberazione per la morte del tiranno non sorge in don Abbondio da una fredda riflessione sulla filosofia della storia o sulla teologia della Provvidenza, ma dal naturale e caldo respiro che tu prendi dopo essere stato oppresso e asfissiato dal macigno dei malvagi onnipotenti. E quindi si vorrebbe quasi baciare la mano divina che ha messo in moto la scopa della peste: «E stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi, prosperosi: bisognava dire che chi era destinato a far loro l’esequie, era ancora in seminario, a fare i latinucci. E in un batter d’occhio, sono spariti, a cento per volta».Comprendiamo, anche se non li giustifichiamo cristianamente, i salti di gioia che un povero diavolo fa all’inaspettata notizia che è morto il pusher che ha venduto la droga mortale alla propria figlia, o che è morto l’impunito disonesto che impone il pizzo sul tuo onesto lavoro. Per cui comprendiamo pure don Abbondio, quando con gioia contempla un futuro senza le angherie, senza le iniquità, senza la spocchia di don Rodrigo: «Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro, con quell’albagìa, con quell’aria, con quel palo in corpo, con quel guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua degnazione. Intanto, lui non c’è più, e noi ci siamo. Non manderà più di quell’imbasciate ai galantuomini. Ci ha dato un gran fastidio a tutti, vedete: ché adesso lo possiamo dire».Beninteso, è inutile cercare in queste espressioni del vecchio curato la parola perdono per don Rodrigo. Un sincero e autentico perdono cristiano lo possiamo trovare in fra Cristoforo o nel cardinal Federigo o nell’umile Lucia, non certo in don Abbondio. Ma io vorrei stare alla larga da quell’intellettuale amico mio che un tempo - non so con quanta legittimità logica e sociologica - definiva il nostro don Abbondio l’essenza del piccolo-borghese, ed oggi lo classifica sbrigativamente come un frustrato. Si fa presto a fare il gradasso con tutti i don Abbondio della storia, si fa presto a impancarsi a censore delle miserie morali di tutti coloro che assomigliano al nostro curato, mentre nel contempo pieghiamo la schiena e ci tappiamo la bocca dinanzi al direttore del nostro giornale, al potente che con una telefonata ci impartisce ordini, e crea e distribuisce a suo arbitrio posti di lavoro (si fa per dire!) e altri benefici. Si fa presto a pretendere da don Abbondio le divine qualità di un arcangelo cristiano. Sarebbe tempo perso e fatica sprecata, perché il nostro curato è semplicemente un uomo, piccino se si vuole, miserabile se si vuole, ma indiscutibilmente uomo.La verità vera è che il nostro timido ed egoista curato abita in tutti noi. E tutti noi siamo, in certe circostanze, dei paurosi e vigliacchi don Abbondio. Anzi, chiedendo venia ad Hegel, possiamo dire che don Abbondio è un’eterna categoria dello Spirito. Egli è, infatti, l’inestirpabile radice individualistica ed egoistica che si nasconde nel sottosuolo di ciascuno di noi. Insomma, don Abbondio esprime magnificamente la forza vitale e selvaggia del nostro io, quando permane nella condizione di assoluto amor di sé. In questo caso, l’io è solamente natura indomita, è vitalità amorale, che genera e assoggetta e divora gli individui. È vitalità amorale bensì, ma è anche condizione e premessa della morale. Di una morale che, se non vuol ridursi a sterile e borioso moralismo, non nega la vitalità individualistica ma la supera e la innalza a più nobili fini morali.Quale campione più puro di fra Cristoforo nell’azione morale? Nella sua conversione, l’impetuoso Lodovico cede il posto a Cristoforo, umile e forte eroe della morale cristiana: la vitalità verde e selvaggia, che esplode in Lodovico, si placa e si nobilita nella morale di Cristoforo. E gli occhi di quel sant’uomo di fra Cristoforo ci dicono che esiste ancora Lodovico, domato ma non annientato: «Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso».Possiamo allora estirpare la vitalità? Assolutamente no; dato che l’uomo non può negare il diritto della vitalità, perché le appartiene. L’albero della vita - che sta al centro dell’Eden accanto all’albero della conoscenza del bene e del male - verdeggia sempre, e produce ora momenti infernali ora momenti paradisiaci. Ed ha ragione Pascal, quando individua questa forza vitale nell’amor di sé, nel moi haïssable, nell’io odioso, che fa sì che l’uomo ora si senta pari a un Dio, ora miserabile e vile. Non possiamo dunque annientare l’io verde e selvaggio, come l’auriga platonico non può eliminare i due cavalli che tirano il cocchio. Ma, come l’auriga doma e corregge e guida i due cavalli, noi possiamo e dobbiamo correggere e guidare la forza vitale, affinché essa, elevata alla dimensione morale, possa garantire energia e concretezza a quell’apertura all’universale che sola garantisce un’autentica morale.

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